L'attentatore Alexandros Panagulis

09 Oct 2020 - MDA DS

Ultimamente, dopo tanto che lo cercavo, mi sono procurato una copia di “vi scrivo da un carcere in grecia” di Alexandros Panagulis.
La copia in questione è un’edizione Pgreco con tutti i testi a fronte1.

Per cominciare, venni a conoscenza del personagio di Panagulis qualche anno fa, ascoltando le canzoni dei paxarmata, una band romana con uno stile abbastanza variegato e particolare, tra le quali “boiati” resterà una delle mie preferite in assoluto.
E boiati è precisamente il carcere militare dove lo scrittore, ma anche politico e militante, passò la gran parte della sua prigionia.

Da allora rimasi ovviamente affascinato, come probabilmente chiunque vi incappi, dalla figura di Panagulis e leggendo le sue poesie ho finalmente coronato questo interesse.
In tutto ciò ovviamente quella che ho letto è una raccolta di grandissimo valore, variegata nei toni, che narra le pesanti situazioni e vicende vissute dal poeta durante la carcerazione, ma lascia comunque spazio per qualche verso tematicamente più libero e per l’espressione di idee personali, nel complesso piena di bellissimi pezzi.

Direi allora di passare a vederne alcuni nel dettaglio:

La Tinta

Ho dato vita ai muri
gli ho dato voci
perché mi facciano un po’ di compagnia
I secondini cercano e ricercano
dove trovai la tinta

I muri della cella
tengono il segreto
I mercenari frugano e rifrugano
e non trovano la tinta

Non gli è venuto in mente
di frugarmi le vene

Questa rappresenta sicuramente una delle più caratteristiche del tenore dell’opera.
“In greco essa dette il titolo a un libro che ne raccoglieva altre diciotto” ci dice l’autore nelle note a pié di pagina2 e la poesia fs riferimento all’abitudine dello stesso a scrivere col sangue sui muri, così come su lenzuola o altre cianfrusaglie (un pacchetto di sigarette nel caso di questa poesia in particolare), per ovviare al sequestro di ogni suo bene, compresi carta e penna, nei momenti più bui della prigionia.

Secondini che in quest’opera vengono definiti mercenari e che in generale nella raccolta ricevono sempre appellativi che, quando non vogliono essere semplicemente invettivi, evidenziano il loro carattere di individui venduti ad un gruppo di ideali fasulli e violenti, da cui risulta un senso del dovere fallato propugnato da un potere che non ha nulla di legittimo e assume nell’opera la precisa e netta sembianza di una tirannia, termine che risulta tanto più forte ricordando che l’incarcerazione di Panagulis avvenne dopo il fallito tentativo di assassinare Georgios Papadopoulos, il pezzo grosso della dittatura.

Ad ultimo va segnalato il terzo verso “perché mi facciano un po’ di compagnia”, che evidenzia uno dei due caratteri fondamentali della produzione di Panagulis, ovvero la scrittura come spada e scudo insieme:

  1. spada ovvero come arma al servizio della lotta sociale, un modo per portare offesa ai suoi aguzzini e soprattutto ai loro capi, la poesia come metodo di rivolta, attività nella quale è infaticabile.
  2. scudo, come in questo caso, in quanto modo per difendersi dalla condizione di isolamento e sofferenza in cui è gettato dai suoi nemici, la poesia come unica compagna, che resta al fianco del poeta in ogni condizione, attraverso pestaggi, tentativi di fuga, scioperi della fame, torture ed angherie varie.

Passiamo ad un’altra:

Il Progresso

C’erano un tempo schiavi
oggetti di carne
animali con due piedi
che nascevano e morivano
servendo bestie con due piedi


c’erano un tempo schiavi
che in vita
li teneva la speranza
della libertà

Anni e anni sono passati
e ora
quegli schiavi non esistono più

Ma è nato
un nuovo genere di schiavi
schiavi ricompensati
schiavi saziati
schiavi che ridono
schiavi che vogliono
restare schiavi

Questo è il progresso

Questa poesia è sicuramente meno legata al tema fondamentale della raccolta rispetto a gran parte delle altre, tuttavia mi piacque molto e l’ho subito sentita vicina a una parte della mia produzione degli ultimi mesi.

La prima strofa è estremamente significativa, per i primi quattro versi delinea l’immaginedegli schiavi di un tempo, esseri caratterizzati dalla non importanza della loro esistenza, appunto non più che animali bipedi; posizione che si rivolta nel significato nel quinto verso dove invece i padroni hanno i connotati d bestie bipedi, termine decisamente più forte e dispreggiativo del precedente, che quindi ha l’effetto di invertire in parte di valore la precedente connotazione; quindi una strofa molto d’effetto e ben costruita.

Segue il rafforzamento di questa nuova immagine umana, non solo moralmente dalla parte del giusto, ma anche spiritualmente viva, guidata dalla speranza, in particolare della libertà, tratto che la riconnette a uno dei temi più pregnanti dell’opera, dove troviamo da un lato i tiranni, i loro esecutori venduti e la vuotezza di ideali e dall’altro la lotta per la libertà e la speranza, tratti che tengono in vita l’autore e che qui creano una discendenza morale tra i sottomessi del passato e quelli di oggi.

Termina la riflessione con la consapevolezza dell’isolamento di questa discendenza, di fronte invece alla nascita di una nuova schiavitù, tenuta legata da una soddisfazione tutta propagandistica che inibisce qualunque ambizione sociale e rende più difficoltosa la via di una mobilitazione per cambiare le cose.
Il progresso si delinea quindi come insieme di regole e tentativi atti a spezzare e dividere questa discendenza di schiavi sul cui sangue il progresso stesso cresce e si nutre.

Vediamo un’ultima poesia nel dettaglio:

Annaffialo

Non piangere per me
Sappi che muoio
Non puoi aiutarmi
Ma guarda quel fiore
quello che appassisce ti dico
Annaffialo

Poesia questa che vuole invece mettere in luce la componente più forte dell’opera di Panagulis, ovvero quella del sacrificio in nome della lotta; lo stesso gesto che gli valse il carcere, dopotutto, non poteva che rappresentare un tentativo estremo non esente, anche qualora avesse avuto successo, da ripercussioni.

Da un punto di vista tecnico in questa, come in altre opere della raccolta, si trova il titolo ripetuto a chiusura, aspetto stilistico che da un effetto piuttosto forte e lascia netta l’immagine nel lettore; riesce quindi bene in questo genere di poesie che puntano a imprimere il messaggio e lo fanno rivolgendosi in prima persona al lettore, tantopiù sotto forma di imperativo..

Altra poesia stupenda, molto lunga a dire il vero, motivo per cui non l’ho inclusa, è “a mio fratello, tenente Giorgio Panagulis” che vi esorto a leggere; altre che consiglio sono poi “biblioteca”, “scene e memorie”, “promessa”, “memoria - anniversario” e molte altre.
Poi se avete la possibilità vi consiglio ancora di più di leggere l’intera opera, perché merita.

Chiudo con una mia poisia recente, nell’ambito di ultimi progetti che includono poesie relative a fatti sociali e politici della storia moderna e contemporanea, una raccolta quindi un po’ più impegnata del solito; poesia questa relativa sempre ai fatti avvenuti sotto la dittatura dei colonnelli:

17 Novembre 1973

Così per giovani,
studenti ed operai
al grido di “psomi,
paideia, eleftheria”
il metallo freddo e cingolato
ingoia le carni,
le getta nello sterco
e nel veleno della sua divisa
ma non ferma
le voci di chi urla
e a rigurgito tuona
“Molòn Labé”

La poesia tratta la vicenda dell’occupazione del politecnico di Atene da parte di alcuni studenti; occupazione che poi coinvolse altre proteste da parte di studenti, ma anche operai ed altri.
La vicenda si concluse aspramente con l’intervento militare il 17 novembre 1973, con pestasggi e addirittura l’impiego di un carro armato.

I versi si soffermano sulla voce e sull’udito come aspetto sensoriale, voce che rappresenta spesso la maggiore arma di chi protesta e ciò che i regimi, specialmente le dittature, hanno fretta di soffocare, anche nel sangue.
Si apre quindi con un motto che significa “pane, istruzione, libertà”3, associato idealmente alle tre figure di colui che protesta, creando una immagine ordinata, che l’irruzione del carro armato demolisce e confonde, macchina che ingoia, ovvero assimila e distrugge ciò che incontra, in contrasto con l’attività dei dimostranti, marcata appunto dall’esprimersi e divulgare.

La narrazione si chiude a sua volta con un altro motto4, racchiudendo quindi la scena in un dialogo unilaterale tra i dimostranti e la dittatura, che non parla se non con la forza delle armi e risulta però così muta e paradossalmente inefficace.

Con questo chiudo e spero che la lettura sia stata interessante, anche perché sia Panagulis che la dittatura dei colonelli sono figure che non smettono di colpire ed interessare.

  1. Non che sappia leggere o comprendere il greco moderno purtroppo, sebbene tempo addietro mi proposi di impararlo, proposito che puntualmente si perse tra impegni, necessità e passatempi; i testi a fronte rappresentano comunque un valore aggiunto nel caso un domani ritornassi sulla mia idea. 

  2. Note di questo tipo sono presenti sotto ogni poesia del libro, a volte dicono solo luogo e data di stesura, ma spesso accennano anche alle vicende o situazioni in cui questa è avvenuta; questa è uno di quei casi. 

  3. Il motto era enunciato dai dimostranti che chiedevano a voce ferma la destituzione del regime militare e l’istituzione invece di un governo democratico. 

  4. Modo di dire che storicamente è attribuito agli spartani eroicamente massacrati alle termopili; si può tradurre approssimativamente con “vieni a prenderle”, riferito alle armi, e si è ripresentato più volte nella storia greca, diventando sempre più nitidamente il grido di chi resiste, contro ogni possibilità, a una forza maggiore intenzionata a schiacciarlo e a soffocarne la voce.
    Anche gli studenti chiusi nel politecnico lo adoperarono.