26 Apr 2021 - MDA DS
Questo post rappresenta il primo in una serie di tre, dedicato alle prime opere del poeta Sergio Corazzini: “Dolcezze”, “l’Amaro Calice” e “le Aureole”.
Ho deciso di fare questa serie perché ho interesse a parlare delle singole opere e metterle in relazione, tuttavia farlo in un unico post sarebbe stato scomodo: sia perché il risultato finale sarebbe stato esageratamente lungo, sia perché così ho più spazio e tempo da dedicare alle singole opere senza rischiare di disperdere troppo l’attenzione o di perdermi a mia volta.
In questo primo post quindi parlerò di “Dolcezze”.
Rappresenta la raccolta di debutto di Corazzini, dedicata a due amici (Alfredo Tusti e Sandro Benedetti), detaglio che rivela tanto: per cominciare il clima in cui il poeta si muove, a contatto stretto con altri, di cui non pochi nomi interessanti del periodo, cosa che gli permetterà, nonostante la breve vita1, di spaziare rapidamente dagli influssi direttamente precedenti, in primis di Pascoli (e ne parleremò più avanti), alle più contingenti novità dei crepuscolari, tra i quali è tradizionalmente annoverato e dei quali frequentò esponenti del calibro di Martini, Govoni e Palazzeschi.
Inoltre questa tendenza è sintomatica del carattere di Corazzini: spesso e volentieri dedica liriche agli amici, condivise con Alberto Tarchiani lo spazio del “Piccolo Libro Inutile” e altrettanto spesso emerge dalle parole di questi stessi personaggi la sua fragilità e potenza, con cui trattiene intorno a se la folta schiera di stretti compagni di poesia, dei quali molti avranno difficoltà ad accettare la sua prematura dipartita.
L’opera è composta da 18 liriche, che comprendono sonetti, singoli o accoppiati, terzine dantesche, quartine e distici in varie combinazioni e un componimento in 7 strofe di 7 versi.
In questi troviamo principalmente settenari ed endecasillabi, ma anche un caso di novenari ed uno di alessandrini.
Queste scelte compositive coprono una vasta gamma di scelte metriche che si mostrano si rispettose di canoni fondamentali della poesia italiana, dopotutto endecasillabo e settenario rappresentano ovviamente dei punti fermi secolari, così come il sonetto (applicato in una moltitudine di combinarioni rimiche) e le terzine dantesche, ma anche ammiccanti nei confronti di tradizioni più recenti, come nel caso dei novenari, emblematici della lezione decadente.
E un’attenzione a Pascoli e D’Annunzio risulta essere in effetti una chiave di lettura importante dell’opera, di cui alcuni elementi notevoli sono:
Guardiamo questi aspetti più nel dettaglio: Quello dello slegarele rime dalla fine del verso è un’operazione che in D’Annunzio aveva assunto un carattere spesso cruciale e programmatico, portata anche alle estreme conseguenze con abbondanti rime imperfette o assonanze/consonanze; D’altra parte le ripetizioni avevano in Pascoli un ruolo fondamentale, soprattutto nella loro versione di raddoppiamenti di termini.
In “Dolcezze” la lezione è interiorizzata, magari senza sbilanciarsi nei virtuosismi D’Annunziani, per cui si trovano esempi come in “la madonna e il suo lampioncello” parte I vv. 5 e 6:
tu se’il compagno mio, tu sei la stella
che mi da pace con il pio chiarore;
In cui troviamo sia la ripetizione di “tu sei” nel v. 5, nonostante la forma “se’il”, sia la rima interna “pio-mio”; Ancora in “acque lombarde” v. 4 troviamo:
come un occhio stupito, a quando a quando,
Raddoppiamento in pieno stile Pascoliano, peraltro alla fine del verso.
Per quanto riguarda le sinalefi, sono piuttosto abbondanti nei testi, ma soprattutto spiccano alcuni esempi davvero notevoli di catene di sinalefi, che dilatano virtualmente i versi (nello specifico soprattutto endecasillabi) senza rompere la metrica, “prosacizzando” vagamente il discorso poetico, ma soprattutto semolendo il contatto occhio-orecchio su cui poggia.
Un esempio è sempre “acque lombarde” v. 4, ma tanto più estremo risulta “cremona” v. 9:
Cremona, evvi un’assai dolce malìa
In cui si lega alla catena anche l’apostrofo, dilatando l’effetto.
Da notare le molte sinalefi che spezzano le virgole, come nei due esempi riportati tra l’altro, elemento che concorre allo straniamento metrico e testuale, carattere embrionale del verso libero novecentesco e riscontrabile per l’appunto nei decadenti.
Proprio a questo concorrono tantopiù gli enjambements infra-strofici, affiancati da meno prepotenti scollegamenti metrico-sintattici, che, in particolar modo nei componimenti più consistenti, discorsivizzano la narrazione.
ne sono esempi le strofe 2-3, 3-4 e 4-5 di “la madonna e il suo lampioncello” parte III:
umilmente, una mano, una di quelle
mani che sanno spesso l’altra mano,
una mano tranquilla che il ribelle
gesto non seppe mai, piano piano,
il solitario lampioncello accese:
s’udì una prece, dolce, un passo umano
lontanare, laggiù, verso il paese
che dormiva da tempo, ne la sera.
Invano, invano il lampioncello prese
fuoco: Maria suavissima non c’era…
Ma soprattutto le strofe 1-2 e 2-3 (anche, meno incisivamente, 3-4) di “dolore” parte I:
Voglio dirti in segreto
de la dolce follia
che mi fa triste e quieto
tanto; vedi, la mia
anima è nel mio cuore,
il cuore è nella mia
anima, e se dolore
l’anima un poco sente,
soffre un poco anche il cuore,
bimbo, quietamente.
E il fatto che anche la parte II segua lo stesso schema, mentre la parte III, conclusiva, invece ne sia priva2, avvalora l’espediente, che assume così carattere strutturante del componimento nel suo insieme.
Per finire tocca, ed è d’obbligo, osservare l’onomatopea in “chiesa abbandonata” v.1:
Din, dan, don, dan, o la piccola voce,
La notevolezza di questa emerge da sola nell’istante in cui la si guarda paragonandola a “sera festiva” vv. 7, 14, 21, 28 (verso onomatopeico a chiusura delle strofe) di Pascoli:
din don dan, din don dan.
Innanzitutto in Corazzini questo suono, che in Pascoli andava a melodizzare in modo estremamente dolce, seppure malinconico, la vicenda narrata, risulta si regolare ma disordinato, i quattro battiti sono monotoni e uguali nella forma, ma scanditi e diversificati dalle loro sfumature vocaliche, formano una composizione che all’orecchio risulta grave e vagamente stonata, dà un senso di solennità pesante e accompagna la successiva descrizione, rapida, mozzicata ed estatica3, scandendola e ricalcandola4 senza necessità delle ripetizioni, quasi come un sermone infuriato.
E’ indispensabile notare questo dettaglio (che dettaglio non è più se ci si ferma a fare un serio paragone tra “chiesa abbandonata” e “sera festiva”) perché, a posteriori, è fin troppo facile scoprire l’emblematicità dell’esperienza nei confronti di un crepuscolarismo che è in divenire proprio in quegli anni, ma anche per il suo valore esemplificativo di un carattere più generale dell’opera complessiva.
I temi fondamentali della raccolta ricalcano la poetica del fanciullino, nella sua dolcezza ingenua (ed è difficile in effetti non trovarsi spesso a percepire la delicatezza di un Corazzini appena diciottenne), immersa però in una costante aura di morte che trapela e, proseguendo nella lettura, comincia anche a mostrarsi.
L’autore si circonda di un ampio spettro di suggestioni: molti sono i temi naturali (floreali e animali), così come molti, e spesso di primaria importanza, erano in Pascoli, ma molti sono anche i temi più prettamente umani e spesso religiosi (la chiesa, che tanta fortuna avrà nell’immaginario crepuscolare, la spada, la città), suggestioni in cui immergersi nella sua lieve sofferenza5, quella di un fanciullino che ha imparato la morte nelle sue forme, ma si sforza ancora di provare a capirla.
Altrettanto consistente è la mancanza di umano in carne ed ossa, vivo appunto, se vogliamo escludere da questa definizione le figure eteree che fanno capolino in liriche come “la madonna e il suo lampioncello” o “il campanile”, che concorre a quel’atmosfera di isolamento e desolazione che tanto irrimediabilmente solidifica le suggestioni di cui sopra.
Dettaglio che forse può essere importante notare è il delicato sollievo che trapela a tratti dalle suggestioni naturalistiche (sto chiaramente pensando a “i giardini”), che fa di “dolcezze” un’opera si della sofferenza ma anche della delicatezza, laddove il successivo “l’amaro calice” si tufferà entro abissi di morte e, forse addirittura, di brutalità più decisi, rappresentando un passo decisivo nel delineaqrsi della poetica di Corazzini. Ma di questo parleremo nel prossimo post di questa serie.
Corazzini morirà a 21 anni, nel 1907, comunque non prima di aver visto trapassare gran parte della sua famiglia per tubercolosi o altre sciagure. ↩
In “dolore” parte III le strofe terminano con punti fermi e infine con un verso tronco, quindi in modo molto forte e categorico, sia grammaticalmente che metricamente. ↩
A tutti gli effetti dieresi e dialefe nel v. 3 («o, sapïente lunga orazione») svolgono un ruolo opposto rispetto alle catene di sinalefi viste sopra, endecasillabizzano un verso che degenererebbe facilmente in un novenario. ↩
A me personalmente, lettore del XXI secolo, il risultato ritmico da una sensazione di scanditura simile al rap nella lettura. ↩
Su questo tema i vv. 7-8 di “ballata della primavera” («e m’era dolce assai tuo venimento / e m’era triste assai tua dipartita;»), componimento dalla struttura notevolissima a tutto tondo, risultano assolutamente programmatici ed esemplificativi di questa bivalenza emotiva. ↩