25 Jun 2021 - MDA DS
Con questo post chiudo il ciclo su Corazzini, ad esclusione del solito approfondimento che seguirà; Nella fattispecie parlerò della terza opera fondamentale della produzione del poeta: “Le Aureole”.
Pubblicata nel 1905, contiene dodici componimenti: sei sonetti, due liriche in quartine, due in versi liberi, uno in endecasillabi sciolti ed uno in terzine e sestine intrecciate.
Già dalla struttura della raccolta possiamo azzardare delle interpretazioni, la densità dei componimenti è molto sbilanciata, nel senso che a parte il sonetto in apertura1 ed un altro inserito nei corposi componimenti che popolano la prima metà dell’opera, la seconda metà è principalmente caratterizzata dai restanti quattro sonetti; Inoltre è interessante notare che i titoli dei sonetti sono in maggior parte semplicemente “sonetto” con eventuale aggiunta di una specificazione.
In questo troviamo quella tendenza strutturante di cui parlavamo nei riguardi di “l’amaro calice”, ma mutata tanto negli scopi quanto nei modi: Se infatti nella precedente raccolta si partiva dalla fondamentale struttura del sonetto, che definiva uno standard di condotta la cui metodica infrazione era improntata a catturare una sensibilità, qui il processo è grosso modo invertito, nel senso che a dare il ritmo all’opera sono le liriche più corpose ed animate.
Su questa impalcatura, le poesie che maggiormente accolgono e raccolgono il lettore sono “il fanale” e, soprattutto, “spleen” e “la finestra aperta sul mare”, con le loro forti influenze simboliste a creare l’atmosfera; Questa deriva sensoriale in effetti va poi ad acquietarsi con un graduale ritorno al sonetto, ed alla sua essenza più contenuta e rassicurante, in un secondo momento.
Se quindi, sommariamente, da un punto di vista strutturale “Le Aureole” disegna una fase discendente, chiaramente organica a quella, pertanto, ascendente della raccolta precedente, l’aspetto straordinario è piuttosto quello stilistico: L’allontanamento da canoni collaudati assume proporzioni inaspettate, troviamo notevolissimi momenti di non-lucidità metrica nelle escursioni, che coprono complessivamente uno spettro che va dal trisillabo all’alessandrino e addirittura doppio novenario, nell’uso di tronchi e sdruccioli, decisamente poco comune nelle precedenti, che turbano l’andamento, ad ultimo nel libero uso, e non uso, delle rime.
In questi versi Corazzini raggiunge forse la più piena potenza espressiva ed eleganza della sua produzione; Ne sono esempi: “la finestra aperta sul mare” v. 102
La finestra di una torre | in mezzo^al mare, desolata [9+9]
In cui quello che sarebbe un perfetto endecasillabo viene devastato dall’aggiunta del termine “desolata” che forza una rilettura metrica che scivola nel rallentamenteo e nella soppressione delle sinalefi altrimenti ovvie, mettendo in atto quella desolazione snche stilisticamente; Ancora il v.39:
e ore, come^un picco|lo fanciullo malato. [7+7]
In cui la lettura di un perfetto alessandrino costringe ad accettare la cesura a metà della parola “piccolo”, con le sue terribili conseguenze in quanto spaccando il naturale ritmo in modo così forte mette ancor di più l’accento sull’aggettivo e sul suo soggetto, il “piccolo fanciullo malato”.
Ancora “spleen” vv.14-15:
Sei triste, mi dai pena [7]
questa sera; non canti, non mi parli [11]
In cui la seconda parte del v. 14 e la prima del v. 15 formano una coppia di quaternari assonanti in punta cui segue la seconda parte del v. 15 che forma un settenario a ricalco del v. 14 (3+4) ancora con assonanza interna, quindi un forte gioco di suggestioni metriche che scompongono e ricompongono su più livelli i versi; Notevoli anche le numerose “a” ed “i” (anche subito successivamente) che ribadiscono anche foneticamente la sensazione di lamento e pena.
Non meno importante l’aspetto semantico: il paesaggio artificiale e desolato di Corazzini si ripropone nelle liriche di “Le Aureole”, ma torna anche l’elemento naturale, in “sonetto alla neve” o “la finestra aperta sul mare” ad esempio, ancora, e soprattutto, in “sonetto all’autunno”, che crea indiscutibilmente un parallelo con “sonetto d’autunno” di “L’Amaro Calice”.
E proprio in questo parallelo c’è il succo del punto di arrivo Corazziniano sull’elemento natura: Siamo partiti con l’elemento naturale come elemento di sollievo, unica fonte di speranza, poi questa speranza cessa e si evidenzia la contrapposizione tra la natura ciclica, che quindi si risolleca ogni volta che si desertifica, e la vita umana, un crescendo invece di desolazione, e arriviamo ora al momento finale di sintesi, è l’uomo che guarda ora la natura con commiserazione, essa ormai condivide il suo destino all’eterno freddo, alla desolazione; Non si parla più della prossima primavera, ma solo di quella passata, perché davanti non si scorge più, l’influenza della natura sull’uomo è venuta meno fino a capovolgersi ed è ora l’influenza dell’uomo sulla natura, che assume i suoi stessi tratti di caducità permanente.
E’ completo quindi, nel corso delle tre opere, il capovolgimento del ruolo della natura; Avviene parallelamente il più intimo mutamento del poeta: quello che all’inizio era molto in linea con un fanciullino Pascoliano passava con “L’amaro Calice” a perdere l’innocenza, dava l’impressione di essere cresciuto suo malgrado, la conoscenza del male della vita l’ha forzato sul percorso.
Adesso infine il fanciullino torna ma corrotto nella sua intuitiva percezione della vita, quello che poteva sembrare un principio di crescita è in realtà un principio circolare da cui non emerge tanto l’acquisizione di un’esperienza, quanto la perdita di un intuitivo stato di grazia e consolazione, il risultato è un totale annichilimento: la poesia “il fanciullo”, che chiaramente rappresenta una chiave per questa interpretazione, verte in questo senso, delineando uno dei motti funebri più strazianti della produzione di Corazzini, senza far emergere direttamente cimiteri o funerali, è potente l’espressione “Oh! Dio, queste campane d’oro \ come insistono…”(“il fanciullo” vv.33-34), con cui si chiarificano la tacita consapevolezza e l’impotenza che attanagliano il poeta, l’unica soluzione la fuga e la chiusura.
La morte, nata come un dislivello emotivo con il ciclo di rinnovamento, e quindi salvazione, della natura, sviluppatasi come proiezione inconscia e permeante sul monso, finisce dentro il poeta, completamente interiorizzata, un punto d’arrivo desolato e terribile cui non si può porre rimedio se non il ritiro cosciente e inespressivo entro dimensioni sicure, come i sonetti finali.
Così ritroviamo organicamente le tantissime sfaccettature di Corazzini, un poeta che incarna i più intimisti moti crepuscolari, ma lo fa tramite un percorso turbolento di affinamento espressivo e metrico: il risultato è sempre la stessa sofferenza, cantata in modi sorprendentemente mai uguali.