11 Jan 2022 - MDA DS
Torno alla mia serie di approfondimenti sui “Canti di Castelvecchio”, parlando di un componimento straordinario e molto utile per osservare un aspetto chiave della raccolta: “La Voce”.
Partiamo subito dal testo, di cui vedremo immediatamente le caratteristiche strutturali fondamentali:
C’è una voce nella mia vita,
che avverto nel punto che muore;
voce stanca, voce smarrita,
col tremito del batticuore:voce d’una accorsa anelante, 5
che al povero petto s’afferra
per dir tante cose e poi tante,
ma piena ha la bocca di terra:tante tante cose che vuole
ch’io sappia, ricordi, sì… sì… 10
ma di tante tante parole
non sento che un soffio… Zvanî…Quando avevo tanto bisogno
di pane e di compassione,
che mangiavo solo nel sogno, 15
svegliandomi al primo boccone;una notte, su la spalletta
del Reno, coperta di neve,
dritto e solo (passava in fretta
l’acqua brontolando, si beve?); 20dritto e solo, con un gran pianto
d’avere a finire così,
mi sentii d’un tratto d’accanto
quel soffio di voce… Zvanî…Oh! la terra , com’è cattiva! 25
la terra, che amari bocconi!
Ma voleva dirmi, io capiva:
- No… no… di’ le devozioni!le dicevi con me pian piano,
con sempre la voce più bassa: 30
la tua mano nella mia mano:
ridille! vedrai che ti passa.Non far piangere piangere piangere
(ancora!) chi tanto soffrì!
il tuo pane, prega il tuo angelo 35
che te lo porti… Zvanî… -Una notte dalle lunghe ore
(nel carcere!), che all’improvviso
dissi - Avresti molto dolore,
tu, se non t’avessero ucciso, 40ora, o babbo! - che il mio pensiero,
dal carcere, con un lamento,
vide il babbo nel cimitero,
le pie sorelline in convento:e che agli uomini, la mia vita, 45
volevo lasciargliela lì…
risentii la voce smarrita
che disse in un soffio… Zvanî…Oh! la terra come è cattiva!
non lascia discorrere poi! 50
Ma voleva dirmi, io capiva:
- Piuttosto di’ un requie per noi!Non possiamo nel camposanto
più prendere sonno un minuto,
ché sentiamo struggersi in pianto 55
le bimbe che l’hanno saputo!Oh! la mia vita che ti diedi
per loro, lasciarla vuoi qui?
qui, mio figlio? dove non vedi
chi uccise tuo padre… Zvanî?… - 60Quante volte sei rinvenuta
nei cupi abbandoni del cuore,
voce stanca, voce perduta,
col tremito del batticuore:voce d’una accorsa anelante 65
che ai poveri labbri si tocca
per dir tante cose e poi tante;
ma piena di terra ha la bocca:la tua bocca! con i tuoi baci,
già tanto accorati a quei dì! 70
a quei dì beati e fugaci
che aveva i tuoi baci… Zvanî!…che m’addormentavano gravi
campane col placido canto,
e sul capo biondo che amavi, 75
sentivo un tepore di pianto!che ti lessi negli occhi, ch’erano
pieni di pianto, che sono
pieni di terra, la preghiera
di vivere e d’essere buono! 80Ed allora, quasi un comando,
no, quasi un compianto, t’uscì
la parola che a quando a quando
mi dici anche adesso… Zvanî…
Apparentemente la struttura è semplicissima, ci troviamo di fronte a quartine di novenari; Sono poche e notevoli le eccezioni da questo punto di vista e ne parleremo poi; Le rime sono incrociate ABAB.
Tuttavia già ad una lettura scandita è immediata una certa e strana musicalità: sensazione che è chiaramente, se si aguzza vista e orecchio, data dalla disposizione regolare ma non canonica degli accenti.
Avevo accennato nel primo post di questa serie, parlando de “La Poesia”, ad alcuni versi la cui distribuzione degli accenti era notevole; In questo caso più che notevole la scansione degli accenti è letteralmente portante, più strutturante della situazione ritmico-sillabica, altrimenti piuttosto semplice.
Ci troviamo fondamentalmente di fronte a due tipologie di novenari: il più tradizionale con accenti di 2a e 5a, oltre chiaramente all’obbligatorio di 8a che da ora daremo per scontato, e un più “stravagante” di 1a, 3a e 5a.
Se denotiamo con “n” la struttura tradizionale e con “p” quella particolare possiamo vedere che la struttura procede in modo estremamente regolare come quartine “pnpn” indirizzando irrimediabilmente il ritmo di ricezione del componimento tutto le cui infrazioni diventano inevitabilmente legate a questa percezione ritmica; Queste infrazioni le evidenzieremo scandendo più nel dettaglio il componimento nelle sue parti.
Direi che una prima parte del componimento va a delineare subito i temi fondamentali, ovvero la voce e la condizione personale del poeta in cui questa parla: questa voce, come morente e sibilata nel silenzio della coscienza, loquace ma incomprensibile se non con l’intuizione morale (la bocca piena di terra, tra le altre cose, rimanda subito alla figura paterna ovviamente); Una voce che è solo superficialmente ultraterrena, poiché in verità non si pronuncia, il messaggio è sempre mediato dalla coscienza individuale di Pascoli, che fondamentalmente parla a se stesso con l’immagine del padre in mente.
Voce che entra in gioco nei momenti cupi, in senso molto fisico e materiale, quei momenti in cui manca il pane, lì dove un uomo potrebbe facilmente allontanarsi dai suoi stessi ideali e motivazioni.
Questa prima parte, appunto, introduce con regolarità ritmica1 il malessere nella sua generica essenza, materiale e tangibile.
Va evidenziata la strofa seconda, in cui troviamo i novenari in una sequenza “pnnn”, forma che ritornerà in una strofa quasi identica vicino la fine della poesia, formando quindi una cornice alla sostanza del testo, e forma che addolcisce la scansione: senza l’altalenante e sofferta alternanza “pnpn”, quindi imprime al lettore la strofa in questione, che è fondamentale sia perché, come abbiamo fatto notare, introduce la figura paterna che quindi assume sembianza e peso, sia perché riporta a quel tema del silenzio soffocante e soffocato, la verità che c’è ed è sempre sul punto di uscire fuori, ma resta sempre infine nascosta; Un tema che troviamo nella “Cavallina Storna”, tanto per citarne una, e che in generale è centralissimo per Pascoli.
Seguendo troviamo il fulcro delle maggiori irregolarità strutturali, che prende gli stessi temi gettati al lettore in precedenza, ma specifica maggiormente il campo del discorso: entra in scena la situazione delle sorelle, chiuse in convento, e la permanenza in carcere, una vera rarità tematica, che non mi pare appaia altre volte nei “Canti di Castelvecchio”2.
Fa capolino anche il pensiero al suicidio ai vv. 45 e 46, percorso da una delle irregolarità notevoli, ovvero novenario con solo accento di 3a, che con le sinalefi a inizio verso danno un senso di repentinità, forse ad accentuare la tragica follia improvvisa di quel gesto, rigettato solo grazie alla voce interiore, che in tutta questa parte si imprime di religiosità, che d’altronde è spesso accostata alla figura delle sorelle, specialmente Maria.
Religiosità che non è di solito propria fino in fondo del poeta, ed in questo senso mi verrebbe da interpretare la seconda grossa infrazione metrica al modello, che troviamo in questa parte di componimento: ovvero il v. 33 che è in effetti un decasillabo (sdrucciolo peraltro) con accenti di 3a e 6a, ed il v. 36, invece ottonario (tronco) con accento di 4a.
È effettivamente il decasillabo un novenario del tipo “n” con una sillaba aggiunta ad inizio verso, che sarebbe proprio la negazione “non”: per cui in un certo senso in realtà, volendo pensare il componimento nella sua regolarità, il verso diventerebbe, appunto, un novenario “n” e quel “non”, spostato allora all’ottonario, trasformerebbe anche quest’ultimo in un novrnario “n” con il “non” accento di 2a che sposta anche l’altro accento da 4a a 5a.
Si tratta ovviamente di una curiosa costruzione, che inverte però il senso di quella strofa e neutralizza in un certo senso la portata delle “devozioni” che non sono sufficienti, ma mantiene la portata introspettiva di quella voce, che si attesta ancor di più come voce interiore del poeta ed espressione della sua personalità.
A parte questa congettura (perché di questo si tratta), siamo entrati nel vivo della lotta interiore.
Seguendo l’ordine del discorso che si è fatto, cioè il tema chiave delle sorelle, quella famiglia dispersa che parrebbe senza scampo e salvezza, la fugace traccia di religioaità lascia nuovamente spazio alla concretezza: il padre è morto e la sua grave aura di responsabilità cade necessariamente sul poeta che nel suo abbandonarsi alla disperazione condanna per sempre proprio quei frammenti di famiglia.
Lo sprono a sopportare ed andare avanti quindi diventa un comando, ma non un comando del padre, che seppure sia ormai quasi visibile e la cui figura si sia concretizzata appieno al punto che è ora connotato anche fisicamente nella bocca, con i baci e la verbalità, ma anche negli occhi (vv.69-72 e 77-78 ad esempio), come abbiamo già detto rappresenta solo il riflesso della coscienza e del senso di responsabilità del poeta, ma appunto un comando di questo senso di responsabilità, un comando difatti che è al contempo una implorazione (v. 82), uno sprono che l’uomo sull’orlo del baratro fa a se stesso.
Ed in questa sede troviamo gli ultimi punti di particolare interesse metrico e prosodico: innanzitutto, come preannunciato, la ripetizione, con qualche variazione, della strofa “pnnn” succitata, che fa in questo caso da punto di svolta, introduce la piena fisicità della figura del padre: è quindi il momento in cui il confronto interiore si sublima.
Altro punto chiave è poi la penultima strofa, nel cui cuore troviamo due versi con accenti di 1a e 4a3 che quindi spezzano definitivamente il ritmo e danno respiro nel volgere della conclusione, e che dipingono l’immagine più vivida che accompagna il lettore in quell’ultimo sussurro che, allora, è quasi fatto con gli occhi più che con le labbra e che racchiude nitidamente quella sofferenza che il componimento tutto rincorre freneticamente per non farvisi schiacciare.
In queste due ultime ripetizioni di “Zvanî”, il nomignolo, dialettale ed affettuoso, esprime appieno tutta la sua suggestività fonetica, ma forse anche più visiva, data dalla somiglianza col termine “svanì”, che a maggior ragione in chiusura di strofa e, addirittura, componimento, nonché accompagnato da ricca punteggiatura, risulta potentissimo.
Per provare a tirare alcune somme credo che questo componimento, a fronte della raccolta, sia si curioso: si nomina un periodo di esistenza del poeta (quello del carcere) trascurato nella poetica dei canti di castelvecchio, ma soprattutto istruttivo ed emblematico: è notevole la portata psicologica e artistica dell’immagine del padre per come viene qui usata4, è interessante la tematica religiosa per come viene qui delineata, ma, soprattutto, è esemplificativo l’uso, assolutamente non un caso isolato in raccolta5, originale ma razionale degli accenti, una pratica che ha un aspetto non trascurabile in un momento di passaggio dalle ultime esperienze di metriche barbare alle varie gradazioni di verso libero che segneranno tutto il novecento poetico italiano.
Suona notevole l’inusuale accento di 7a, attaccato all’obbligatorio di 8a, nel v. 10, che sicuramente ha almeno un valore rafforzativo che è forse non casualmente posto in seguito al termine ricordare, per un autore che deve ai tormenti del suo passato, remoto e forse anche recente, buona parte della sua infelicità terrena; per il resto grosse infrazione in questa parte di componimento non ci sono. ↩
Ed in effetti nella postfazione l’autore prende questo componimento come movente per ricordare i suoi compagni di quel periodo politicamente attivo. ↩
Io qui al v. 78 leggerei un novenario con dieresi in “pianto”; potrebbe aversi anche su “pieni”, ma allora si avrebbe una stranamente cacofonica dissonanza tra questo e lo stesso termine nel v. subito sotto, chiaramente senza dieresi! ↩
Suggerisco qui una mia recente lettura: “I Segreti di Casa Pascoli” di Vittorino Andreoli, dove infatti questo componimento ha la sua posizione tra le opere prese a sostegno dell’analisi psicologica del poeta; il libro mi sento di consigliarlo come lettura interessante e decisamente coinvolgente. ↩
In merito rimando alla lettura di alcune note di pier vincenzo mengaldo in “ancora sui novenari di castelvecchio (con due appendici)”, studi novecenteschi giugno 1990, che mi è stato utile durante la stesura del post e generalizza il discorso su tutta la raccolta. ↩