Il vate stanco 1, "La via del rifugio"

04 Oct 2022 - MDA DS

Guido Gozzano, di cui parlerò in questo e forse altri post, è per molti aspetti un crepuscolare sui generis.
Innanzitutto la sua produzione è relativamente tarda; Nel 1907, anno di pubblicazione de “La Via del Rifugio”, Govoni già strizzava l’occhio al futurismo, Palazzeschi iniziava ad allargare i suoi orizzonti letterari ed il giovanissimo Corazzini passava a miglior vita, proprio un pugno di mesi dopo la suddetta raccolta.
C’è inoltre da dire che il suo modello assoluto di riferimento, fino a poco tempo prima, fu D’Annunzio, e se si vuole fare, ad esempio, un paragone proprio con Corazzini il diverso peso che ha l’influenza di Pascoli è in qualche modo visibile.

Fatte queste dovute osservazioni, forse proprio questa tarda fermentazione dei sentimenti ed immaginario crepuscolari pone Gozzano in una posizione non banalmente peculiare, se non esattamente germinale.
Sanguineti, uno dei maggiori rivalutatori del poeta, arriva a considerarlo come un anello fondamentale di congiunzione tra il prima e dopo avanguardia italiano, un vero e proprio tassello fondamentale per spiegare Montale e chi dopo di lui.

In questo post vedremo proprio la raccolta “La Via del Rifugio”, in particolare con uno sguardo critico relativamente alla struttura e le diverse tensioni che la compongono e che per necessità di cose si trovano in un lavoro d’esordio come è questo.

Da un punto di vista strutturale, in effetti, l’opera si può agevolmente dividere in tre blocchi: 1 Un primo formato da componimenti lunghi, imperniati sulla quartina, se non su distici dall’evidente sapore di quartine compresse, versi pertanto anch’essi notevolmente lunghi, rime ben formate con poche eccezioni, schemi ABBA e ABAB; I temi sono familiari/relazionali e di turbamenti filosofici, più propriamente i primi come fonte di ispirazione per i secondi.
2 Un secondo blocco formato esclusivamente da sonetti1, è questo il cuore dell’opera che mostra la maggior varietà di temi e soggetti a bilanciare la monotonia metrica; Fa da collante tra questo blocco ed il precedente una corona di sonetti che se nello stile quindi segue questo secondo blocco, nel soggetto è perfettamente allineata col primo blocco in quanto parla del nonno del poeta.
3 Una terza parte che ritorna alla quartina come modello di riferimento, ma esclusivamente con versi corti (dal senario all’ottonario fondamentalmente), i temi riprendono quelli della prima parte, ma il turbamento filosofico si spegne ed appiattisce nella rassegnazione, che sfiora la follia autocommiseratrice, ed una crescente presenza di morte; Spiccano una corona di “antisonetti”2 in penultima posizione ed un componimenti in sestine di senari con notevole chusura di strofa in doppio ternario con gradino.
Penso sia fondamentale notare la struttura dell’opera in questa suddivisione perché nel darle una visione di insieme risalta moltissimo: La corrispondenza tra gli stacchi tecnico-metrici e quelli tematici è evidente per così dire.

Nella prima parte troviamo i pezzi più celebri e celebrati della raccolta, in particolare “la via del rifugio” e “l’amica di nonna Speranza”3; In questi pezzi troviamo metricamente le scelte più notevoli, tra quartine leggermente schizofreniche (vedi il v. 116 de “la via del rifugio” che nel suo essere un settenario di una sola parola dà perfettamente il senso della rapidità che viene espressa) e contenenti alcune delle immagini più belle in assoluto (vedi i vv. 133-136 della stessa, per non prendere gli esempi più ovvi e scontati), e distici che danno artificialmente la dignità e profondità di campo di versi lunghi al modello fondamentale della quartina, fino al caso estremo proprio de “l’amica di nonna Speranza” con le sue strofe 8(A)+9(B)/9(B)+8(A).
Attraverso queste scelte metriche si mostra un immaginario estremamente decadente, popolato di fanciulle e signore, ma anche di dignitosi anziani, personaggi che provocano un profondo sgomento psicologico, espresso però nei termini della filosofia, per il confronto e le riflessioni che forzano nel poeta, direttamente presente sia come narratore che come personaggio.
Guardiamo ad una delle parti clou de “le due strade”, i vv. 49-54:

Nulla fu più sinistro che la bocca vermiglia
troppo, le tinte ciglia e l’opera del bistro

intorno all’occhio stanco, la piega di quei labri,
l’inganno dei cinabri sul volto troppo bianco

gli accesi dal veleno biondissimi capelli:
in altro tempo belli d’un bel biondo sereno

La bruttezza che c’è nello svanire della bellezza è tale perché è vissuta come una condanna, un contrasto sofferto con la freschezza giovane della ragazza, è espediente per scovare una personale bruttezza interiore, una impotenza all’amore che infatti esplode nella successiva “il responso”: i vv. 53-54, che compongono un ritornello, danno la forma di questa fragilità, i vv. 71-78, che chiudono la poesia, danno il peso di questa turba e la condanna che reca:

L’amore giungerà, Marta?» (nel libro intonso,
pensavo, ecco il responso lesse di Verità)

«L’Amore come un sole» (durava nella stanza
l’eco d’una speranza data senza parole)

«irraggerà l’assedio dell’anima autunnale,
se pure questo male non è senza rimedio…»

Ella dal libro, in quiete, tolse l’arme, mi porse
l’arme. Rispose «Forse! - Perché non v’uccidete?»

E a chiudere questa prima parte ed aprire la seconda c’è la corona di sonetti che svela la gigantesca figura tremenda, forse disturbante, il nonno, un confronto a priori fallimentare proprio a causa di queste turbe che lo rendono sconfitto di fronte a un personaggio così familiare ed amato e che potrebbe benissimo recare l’ombra di un Gozzano stesso che non è più; Un aspirante vate troppo stanco per essere vate, un aspirante dandy troppo introspettivo e turbato per essere un dandy.

La seconda parte, se si appiattisce metricamente nel puro sonetto, esplode nel ventaglio di soggetti e suggestioni e svolge un lavoro fondamentale: svilisce i turbanìmenti insopportabili che sono apparsi nella prima parte.
L’ironia agonizzante che in precedenza si intravedeva tra le pieghe del malessere diventa l’unico rifugio dal malessere stesso; Nel leggere i versi è facile trovarsi ad immaginare Gozzano stesso che sorride beffardo a mezza bocca nel pronunciarli.
I vv. 13-14 di “speranza” ad esempio, i vv. 12-14 de “l’inganno”, il v. 14 de “la morte del cardellino”, ancora i vv. 12-14 di “in morte di Giulio Verne”.
Questa ironia beffarda, che implacabile irrompe a chiudere e coronare le riflessioni e le immagini, diventa lo strumento indagatore di chi non riesce più a percepire scienza e filosofia nelle loro regole: le turbe hanno rotto la capacità razionale e quindi è sviluppato un nuovo meccanismo d’analisi che nelle pieghe è altrettanto scientifico e filosofico, ma il cui solo rigore è un trascinato umore: i vv.12-14 de “l’ora di grazia”, i vv. 12-14 di “parabola”.

Trovato quindi istintivamente il modo di affrontare le turbe si passa alla parte terza, che riprende il modello a quartine della prima, ma si adagia rapido su versi tendenzialmente brevi, puntuali; Si parte subito con un componimento filastroccheggiante come pure era “la via del rifugio”, ovvero “la bella del re”.
A questo seguono altri che riprendono tutti i tormenti della prima parte, che tuttavia sono ora spersonalizzati e fatali: a soffrire fino ad uscire di senno non è più il poeta, ma Ciaramella, che pare incarnare l’inaccettabilità della vecchiaia e bruttezza come prima erano solo negli occhi del narratore, o ancora “la povera cosa che m’ama” de “un rimorso”, vittima di quell’incapacità di amare di cui il poeta tanto si autocommiserava, o per finire la povera madre de “l’ultima rinunzia”(pezzo bellissimo e straordinario!).
Il male è lo stesso, ma ora è spersonalizzato ed estraniato, come pure suggerisce il fatto che il poeta non appare più nei componimenti in prima persona ma in terza, lavoro questo compiuto attraverso l’ironia di cui parlavamo sopra.

E allora consiste in questo “La Via del Rifugio”: la spersonalizzazione del dolore collettivo attraverso una pungente ironia, lo svuotamento di significato che rende sopportabile il significante.
Il Tutto diventa solo un termine vuoto ne “l’ultima rinunzia”, mentre il Niente è scomparso per sicurezza, ha il calibro della Luna, un grande oggetto scioccante ed abbindolante, da astrologia; Il parlare di Tutto è sognare e questo sognare ben vale lasciar crepare tua madre da sola, alla faccia dei rimpianti per il nonno.
L’ultima rinunzia è proprio il sacrificio ultimo di sensibilità, intesa come capacità di sentire, il bisogno spasmodico e farmacologico di sognare proprio di un vate troppo stanco per fare il vate:

- «he mi dici, che mi dici,
che mi parli tu di lutto?
Non intendo ciò che dici
quando parlo con il Tutto.

Forse che lamentatrici
non ci sono a lamentare?
Forse che becchini e preti
non ci sono a sotterrare?

E la fate lamentare
e la fate sotterrare:
ma lasciatemi sognare,
ma lasciatemi sognare!

Ma lasciatemi sognare!»

Come nota finale, in calce al mio testo si fa notare, con le parole di De Marchi, la parentela concettuale tra il motto di Gozzano e quello di Palazzeschi:
«il famoso: “e lasciatemi divertire!” del Palazzeschi… incomincia là dove termina questo “lasciatemi sognare”. Dall’estetismo esasperato dell’estrema età romantica si passa al funambolismo futurista con due consimili invocazioni».
La parentela concettuale è effettivamente notevole e rende i due forse i più interessanti autori passati sotto la corrente crepuscolare.

  1. per la precisione 14 e chi volesse è liberissimo di trovarci del dolo nel fatto che siano esattamente come il numero di versi di un sonetto! 

  2. Costrutti di due terzine e una quartina in quest’ordine, anche lo schema metreico è consistente col sonetto e considerando il massiccio utilizzo che si fa proprio di questo mi sembra ragionevole considerare questi costrutti come variazioni sul sonetto. 

  3. Qui “il responso” è mia scelta personale invece, una poesia che ho davvero adorato.