24 Jun 2023 - MDA DS
Sono passati alcuni mesi dal mio ultimo post: non mi sono scordato del blog, ma tra impegni, problemi personali e difficoltà creative ho dovuto tenere da parte questo pezzetto della mia vita più a lungo di quanto mi sarebbe piaciuto.
Detto questo, torno finalmente a pubblicare, e lo faccio con un autore estremamente importante e di spicco come Giuseppe Ungaretti.
In particolare parlerò della sua prima grande raccolta, o meglio raccolta di raccolte in quanto l’organizzazione definitiva è successiva a pubblicazioni precedenti più frammentarie; L’opera in questione è “l’Alllegria”.
Parliamo di una summa di poesie più vecchie. ovvero il gruppo di “ultime” e quello de “il porto sepolto”, pubblicato nel 1916, e di poesie più nuove, cioè “naufragi” con “girovago” e “prime”, pubblicazione leggermente successiva del 1919.
È già interessante notare la struttura della raccolta: si inizia con “ultime” e si finisce con “prime”, come se la raccolta in se seguisse a tappe una trasformazione in cui cessa uno stadio per giungere ad un altro che inizia proprio con la fine della raccolta stessa; La cronaca quindi di un processo creativo ed umano.
Questo processo in effetti emerge potentemente nel cuore della raccolta, cioè nel dialogo tra “il porto sepolto” e “naufragi”.
Attraverso le due sotto-raccolte la profonda melancolia che emerge fin da “ultime” matura, è a tutti gli effetti un naufragio che porta violentemente Ungaretti ad uscire dalle acque del porto sepolto e a scontrarsi con l’accettazione, che si manifesta spesso nella dicotomia di straniero e membro della comunità, in quel momento umanamente terribile che è la prima guerra mondiale.
Il risultato non è senza ferite, il segno di quegli anni è profondo e la possibilità di essere lo stesso di prima inesistente.
Questa rapida analisi è chiaramente molto vaga, ma la profondità di questa parte dell’opera Ungarettiana emerge da tutte le parti: stilisticamente e tematicamente.
Stilisticamente il modo poetico è ad oggi ancora straordinariamente riconoscibile, tantopiù che negli anni dieci del secolo scorso doveva fare i conti con le neonate avanguardie e la fine del momento crepuscolare.
Che Ungaretti tenga in conto i modi futuristi è abbastanza revidente sia storicamente che in termini letterari: contatti e collaborazioni con Lacerba dimostrano la prima, un’impostazione metrica di antitesi-sintesi al paroliberismo dimostra i secondi, di contorno la simpatia che entrambi suscitano nel Mussolini pre-fascismo.
La forma più evidente di questa antitesi al paroliberismo emerge dalla parsimonia con cui Ungaretti si esprime, i suoi famosi versi monoparola e gli importanti spazi bianchi, che si contrappongono ai muri di parole paroliberi.
Tuttavia queste stesse caratteristiche dimostrano una netta coscienza geometrica che risuona della lezione futurista; Si potrebbe addirittura azzardare che alcuni andamenti sinusoidali delle strofe, o la mancanza di questi,seguano in parte una stessa logica geometrica, così come il nervosismo metrico di molti versi, la difficoltà nel catalogare un senario/settenario/ottonario creano una metrica movimentata e dinamica, che appare molto più ragionevole ed attuale dopo la prima lezione avanguardista.
Dal punto di vista tematico, il termine che pare legare tutta l’opera è melancolia, una lenta e cadenzata decomposizione di fronte le cose del mondo, che siano gli spazi umani (vivi come morti), l’acqua, o il rapporto con le cose della società.
Questa melancolia è il sentimento ricorrente, che tuttavia muta costantemente, nel modo di declinarsi ed esprimersi: le esperienze, della guerra principalmente, lasciano un segno indelebile e gradale e la reazione umana è di sciuparsi emotivamente, fino a cadere in una inevitabile fragilità nostalgica.
È all’insegna di questo mutamento inesorabile che il sole accecante d’Africa, la morte di Mohammed Sceab o di un commilitone, l’acqua dell’Isonzo, un paesaggio devastato o la profonda oscurità della notte sono filtrate dallo stesso stato d’animo, dallo stesso sentimento, ma trasmettono un diverso grado d’emozione e coscienza.
Lo sforzo che ciascuna di queste esperienze impone alla sensibilità dell’autore ne sgualcisce e consuma lo spirito, ma ne accresce øa sensibilità.
Quindi ad enfatizzare questa evoluzione intorno ad uno stesso corpo emotivo intervengono proprio le tecniche di cui sopra.
Troviamo da subito una gran quantità di cambi metrici notevoli, strofe ad incastri e scale (7-5-7 in “Notte di Maggio”, 7-6-5-4 in “Veglia”, 6-5 in “Sono una Creatura”), blocchi (di ottonari in “Chiaroscuro”, di ternari in “Sono una Creatura”, di settenari in “Sonnolenza”), modi metrici che danno una impressione di musicalità e rigore, che chiaramente rigore non è nel senso della metrica tradizionale.
Questi vengono pian piano a sciuparsi, i versi cominciano ad essere più nervosi ed ambigui, iniziamo con brevi salti nei quinari/senari di “pellegrinaggio” per esempio, cui seguono molti casi di sinalefi e dieresi incerte che rendono il metro tremante.
Nel momento in cui sbarchiamo su “naufragi” la situazione si complica: il verso medio si accorcia, troviamo una moltitudine di bisillabi e trisillabi, giochi di tronchi e sdruccioli (caso estremo è “natale”), ma anche versi estremamente ambigui (il quinario/senario/settenario al primo verso di “Dormire” è un caso limite ed emblematico, ma anche i vv. 4-5 di “un’Altra Notte”, molti versi di “Giugno”, la prima strofa di “Sereno”).
In uncerto senso c’è una discesa nella nettezza e nitidezza del verso breve, che però è rinfrescata dall’ambiguità metrica, senza dimenticare che spesso queste posizioni metricamente notevoli coincidono con posizioni tematicamente di rilievo (per cui tanto i bisillabi incastonati nelle strofe di “In Memoria” quanto l’otto-novenario che spicca al v. 6 di “Godimento” enfatizzano un momento chiave del componimento).
Questa discesa rincorre metricamente l’allargamento della sensibilità di cui parlavo e la pregnanza della melancolia, dando una sensazione al contempo di familiarità ed unità stilistica, ma anche l’impressione di un cambiamento e slittamento graduale.
Ungaretti resta riconoscibile tanto nelle ondeggianti strofe che si perdono nel trasporto vagamente onirico-riflessivo (c’è chi parla di Ungaretti in relazione al successivo ermetismo, per me a ragione), quanto nei sottili muri di bisillabi-quaternari mozzicati e strozzati che fanno i conti con la morte e il dolore.
Ma effettivamente nel viaggio che è “L’Allegria” tutto cambia, in un modo che solo il contatto con la morte può imporre, ed effettivamente in tal senso è appropriata l’immagine del naufragio: perdersi inesorabilmente, a un passo dall’affondare, in un modo tale che anche tornando a galla, e forse sulla terra ferma, si è definitivamente diversi, svuotati e suscettibili, una sensazione che non si può scrollare di dosso.
Spero di riuscire, nei prossimmi post ad elaborare su queste sensazioni, esponendo ed approfondendo qualche componimento nello specifico.