Il grande spessore de "La ragazza Carla"

03 Apr 2021 - MDA DS

Avendo letto durante il passato mese “La ragazza Carla”1 di Elio Pagliarini, ritaglio finalmente del tempo per scriverci su un post.

E’ il caso, innanzitutto, di spendere due parole per contestualizzare l’opera: Pubblicata integralmente solo nel 1960, il testo fu composto tra ‘54 e ‘57, tuttavia il soggetto risale addirittura agli anni ‘40, quando lo stesso Pagliarini lavorava per una società di import-export.
Queste vicende sono ricordate dall’autore nella breve cronistoria in postfazione, insieme al fatto che a precedere l’edizione integrale ci sia stata l’apparizione su riviste di singole parti e un deciso apprezzamento da più parti, cosa questa su cui non stento a credere.

Proprio sulla fortuna dell’opera mi sento di essere categorico: “La ragazza Carla” è un capolavoro! Basta riconoscere l’ambiente da cui prende le mosse, in pieno neorealismo, per apprezzare le sue caratteristiche di originalità e pertinenza insieme.
Infatti si tratta di un’opera di un realismo molto profondo, tratta in modo chiaro uno spaccato di realtà milanese dell’immediato dopoguerra, ma fonde in quest’idea la delicatezza di un romanzetto di formazione e declina il tutto con uno stile variegato, polimorfo e poetico, paurosamente espressivo nella sua particolarità.

Proprio dalla portata di questa doppia natura, realismo e formazione, viene natura iniziare l’analisi.
Ad una lettura anche superficiale emerge chiaramente la continua crescita di Carla, che passa attraverso tutte le fasi di qualificazione da adolescente ad adulto, come lo studio, il lavoro, i rapporti sociali, e anche attraverso quelle più esattamente femminili, come (e qui sarebbe bello poter specificare “all’epoca” ma sarebbe esatto solo a metà) molestie varie, i fastidi del ciclo ed il ruolo in casa.
Allo stesso tempo, parallelamente a questo processo di crescita, si trova la città iperattiva dello sviluppo economico, che macina nel suo tritacarne instancabile tutti quanti e in cui ogni elemento di disturbo, come i comizi e le proteste, si riduce a temporanea febbre su cui devono formarsi gli anticorpi dell’abitudine.
Abitudine, questa, che rappresenta proprio la parola chiave su cui si fondono e mescolano questi due aspetti apparentemente distinti e reciprocamente ben localizzati.

L’abitudine nell’opera assume i caratteri di una natura si artificiale ma anche invincibile e necessaria, creando fin dalla prima pagina un’atmosfera esasperante (molto velata, che si delinea tra le pieghe dei versi) in cui la realtà industriale e capitalista di Milano crea necessariamente un’abitudine alla fretta e al disinteresse per il prossimo sopra i quali allo stesso tempo si legittima, in un circolo vizioso entro il quale la capacità materiale di messa in discussione muore.
Sono emblematici da questo punto di vista un estratto della parte 4 del capitolo III:

Dabbasso sotto i portici c’è una
che vive col maglione, fa già primavera,
ha un petto enorme e grasso
che le dà da mangiare

dabbasso è lei che applaude
e zitti Carla e Aldo a guardare
mentre Mizar fa il matto
     poi dice «a lavorare» un po’ più calmo
     quando vede la celere di scorta.

E anche l’inizio della partre 5 dello stesso capitolo:

Quante parole nei comizi e folla
ne marzo quarantotto! Gente fissa
ogni ora del giorno e della notte in piazza Duomo.
Aldo, Angelo, persino la collega dell’ufficio accanto
vestita così bene
dicono che la gente che lavora
deve stare al suo posto
che si sa bene per chi bisogna votare.

Entrambi gli stralci vertono a descrivere il comizio, che assume all’interno di quella società quasi la funzione di spettacolo e rituale cui tutti partecipano mostrando tuttavia l’inconsistenza fondamentale dello stesso, nell’eterogeneità dei partecipanti c’è una parte di pubblico che ci crede davvero, esattamente la madre (come ce la smaschera il petto enorme e grasso) povera (come ce la denota il fatto che viva scaldandosi col maglione) che viene dabbasso, non solo nella struttura ovvia di come si svolge il comizio, ma in un senso più ampio di divisione di classi, che tuttavia si muove e sfoga all’interno di una massa fluida e inomogenea che si scontra-incontra con la politica moderata che smantella questo slancio, questa impressione che debba succedere qualcosa (e l’anno è un quarantotto non a caso!), riqualificando il comizio a rituale vuoto e abitudinario, sempre sotto controllo, che difatti puntella a più riprese l’opera.

Seguendo la logica delineata finora, allora sarebbe più corretto parlare non tanto di formazione quanto piuttosto di deformazione: La maturazione di Carla passa a tappe forzate attraverso un processo in cui non solo non capisce come e perché questo avvenga, ma inoltre il suo accadere la mette ripetutamente in crisi; Crisi cui lei risponde con la fuga, vero atto di resistenza, più o meno conscia, e fughe cui l’ambiente e gli altri, la sua stessa madre in primis, processo questo che la segna a sua volta (se a inizio opera la conosciamo mentre dorme beata, la lasciamo alla fine che passa le notti insonni), rispondono con la repressione.
In fondo nella piena logica dell’abitudine non serve che Carla capisca o accetti, è sufficiente che si arrenda a una logica del mondo che è necessaria per il solo fatto che rende impossibile sviluppare delle altrernative, che consuma se stessa.
Impossibile in qualche modo non rispèecchiarsi (e nelle cose che ho detto lo faccio certamente, in modo più o meno conscio) in questi meccanismi anche oggi che essi sono si mutati, ma forse anche intensificati.

All’interno di queste premesse più generali e complessive si muove perfettamente il tema della maturaziuone sessuale e di come venga vissuto da Carla, e parallelamente dal lettore in un modo quasi direttamente connesso alla stessa, un tema quindi mai reso troppo esplicito, ma assolutamente pregnante.
Questo tema viene proposto da subito, nel I capitolo parte 3, con Carla che rincasa dalla scuola serale dopo essersi data alla fuga per le avances del compagno Piero e, nello sgattaiolare a letto, sente la sorella e il marito che “fanno cigolare il vecchio letto”, di conseguenza si bagna (e penso saremmo inscusabilmente ingenui a credere che quel “spremono tutti gli umori del suo corpo” si riferisca solo al sudore!) ripensando involontariamente, fra l’altro, anche alla vicenda con Piero.
E questo copione rappresenta lo scheletro su cui tutta la non-esperienza di Carla si snoda passando da Piero, il compagno anch’egli adolescente, turbato dalle stesse difficoltà e incomprensioni e disagi della protagonista, afflitto da inesperienza ed incapacità comunicative che echeggiano come congenite nella società che li circonda tramite il parallelismo con il compagno di classe anziano; Segue poi con Aldo, in cui resta la stessa incapacità espressiva che tuttavia, privata della goffaggine e gonfiata nell’ego dalla sicurezza di una esistenza più solida all’interno del mondo lavorativo e sociale, si sublima ed estroflette su Carla, diventando ancor di più motivo di crisi per la stessa; Se con Piero l’incapacità era copnsciamente condivisa, quindi poteva diventava punto di incontro passivo, con Aldo tale incapacità è rifiutata e raggirata e diventa perciò un peso reale sulla vita di Carla, spingendola a mettere maggiormente in crisi la sua esistenza passiva.
In questo salto si passa tramite il lavoro: Piero sparisce dalla vita di Carla tra primo e secondo capitolo, in cui Carla passa dalla serale al nuovo impiego appena ottenuto, dove le molestie da parte del capo, tra secondo e terzo capitolo, fanno da shock e molla che la spinge ad accettare le avances di Aldo come rifugio, dando vita ad una relazione che quindi nasce come forzatura e necessità di sopravvivenza.

Va notato, nel retroscena di queste vicende, il rapporto invece tra Nerina, la sorella di Carla, e Angelo, il marito di questa, che segue un processo simile in un deteriorarsi naturale ed ecosistemico.
Presentati nel momento principe della loro relazione, mentre fanno l’amore, le difficoltà della coppia passano attraverso l’inconsistenza di Angelo col lavoro, giustificata, tra molti giri di parole, come una pigrizia, una mancanza di affabilità, una retorica del mondo imprenditoriale milanese questa che nasconde la discriminazione verso le probabili propensioni socialiste dell’uomo, tornato dalla Germania coi reumatismi (per il freddo o le percosse vien da chiedersi) probabilmente dopo essere stato deportato; Angelo quindi rappresenta l’ostracizzato in quanto resistente all’abitudine di cui parlavamo, difficoltà, questa, insormontabile che si sublima attraverso i capitoli in una incertezza intrinseca dell’esistenza della coppia, che tramuta in disagio, crisi e violenza nel momento in cui la realtà intima e privata si concretizza con la gravidanza di Nerina, ma la realtà sociale resta mutilata, con Angelo che lavora ma chissà per quanto (l’emblema di questa situazione è l’immagine di Nerina col pancione e lo schiaffo sulla guancia).

La grande forza dell’opera, tuttavia, nel complesso di queste narrazioni, deriva dalla potenza espressiva del linguaggio usato che in poche parole o versi sapientemente accostati riesce a trasmettere un intero mondo di suggestioni, e quindi di possibili informazioni.
Questo concetto è evidente e fortissimo nel modo in cui vengono presentati e descritti i personaggi, che vengono costruiti su sequenze brevi di affermazioni o comportamenti chiave, che accumulandosi riescono a dare un’idea anche molto specifica del soggetto, per cui ad esempio nel capitolo I parte 7 il compagno di scuola anziano è presentato nei versi “come ridono queste ragazze e quell’uomo anziano che fa steno / e non sa, non sa tener la penna in mano” da cui, lasciandosi trasportare dalla scena, sembra quasi di vederlo quel signore che si aggira come un monello tra le ragazzette della classe, accollandosi e facendo il simpatico, mentre prova a non cascare nella sua sbadataggine e inettitudine (fa stenografia ma non sa tenere la penna in mano dopotutto!).
Oppure Piero, nella parte 8 dello stesso capitolo, è presentato come:

Allora si fa avanti e l’accompagna Piero
che fa stenografia perché non vuole
fare il ciclista col padre, un impiego
gli piace di più, porta gli occhiali
A Piero piace il calcio e non lo gioca
mai o troppo poco e forse c’è qualcosa
che gli torce il tronco nel suo sviluppo
e non prende le cose come vengono e senz’armi
e all’insaputa di sé si mette in lotta con l’ambiente.

E qui già dai primi due versi capiamo molto del personaggio: intanto il contesto in cui viene inserito, si offre di accompagnare Carla e ci riecheggia subito la vicenda delle avances della parte 1 che, seguita dal fatto che anche lui fa stenografia come il compagno anziano2, ce lo fa associare a quest’ultimo e ci palesa le sue intenzioni; Tuttavia segue una serie di dettagli che da vita propria a Piero, il fatto che voglia determinarsi autonomamente rispetto al padre, il fatto che sia netta l’evidenza di una sua prestanza fisica mancata ma inconsciamente e malamente celata e come questa cosa ci dia la netta impressione dell’insicurezza di Piero e della sua difficoltà a lasciarsi andare; A fianco a tutto ciò la suggestione psicosomatica che i versi danno nella loro composizione, tipo “[un impiego /] gli piace di più, porta gli occhiali” o ancora il verso subito successivo, in entrambi laccostamento forte e repentino trasmette in un baleno da un gusto o pensiero una caratteristica fisica, legando e fondendo le due cose con una suggestione di ovvietà e necessità, creando un solo disegno al contempo mentale e fisico, un solo ritratto, appunto, psicosomatico.
Tutti questi espedienti rendono protagonisti in pochi versi i personaggi o le vicende trattate, ce li contrestualizzano e riconnotano, a volte (come nel caso di Piero) ce lo rivoltano dalla brusca impressione iniziale filtrandolo attraverso le sue stesse difficoltà, dando un’impressione a lungo termine che, per sedimentazione, si somma alla vicenda dell’opera diventando parte organica di quello spaccato di esistenza e prova delle sue realtà, che permette, nel computo finale, di trarre conclusioni, come quelle che sono state tratte da me nell’analisi di cui sopra.

Questa portata espressiva quindi, insieme ad una profondità e sensibilità tematica formidabili, fanno de “La ragazza Carla” un’opera terribilmente attuale e che sa lasciare più volte col cuore in gola (o almeno per me è stato così), oltre ad essere l’esempio principe delle qualità di Pagliarini nel contesto degli anni ‘50-60’ in cui appare tra i novissimi, del realismo e plurilinguismo di cui ho parlato in questa sede lasciando il giudizio su quest’opera specifica volutamente in sospeso.

  1. Fra le altre cose consiglio specificatamente questa edizione, completa e fedele alla versione integrale originale e in un formato stupendo; Io personalmente l’ho trovata usata su qualche sito internet specifico a un buon prezzo. 

  2. La stenografia è una serie di tecniche di scrittura compatta e quindi veloce, il termine steno quindi suggerisce il significato più puro del termine come compattezza, contatto dando l’impressione di intendere contatto e vicinanza fisica.