Un Approfondimento, "Alla serenità"

07 Jul 2021 - MDA DS

Ecco l’approfondimento promesso a “Le Aureole”, raccolta trattata nello scorso post.

Dopo molto pensare ho deciso di trattare la poesia “alla serenità”, l’ultima lunga della raccolta.
Si tratta, come nei precedenti approfondimenti, di un componimento meno centrale degli altri, in questo caso sia per posizione che per impatto in lettura, ma interessante per consolidare le opinioni uscite in analisi dell’opera tutta e, ovviamente, composto magistralmente.
Riporto il testo:

Io t’ò nel cuore e tu, sole, mi scaldi
e le cose non oggi allo sfacelo
imminente rassegnansi: che cielo,
oggi! e che squilli! Nunziano gli araldi

giovinetti l’avvento che sognai?
Come tutto è soave, come tutto
mi canta in cuore! non m’hai tu costrutto
un nido nei novissimi rosai?

Stelle! che gioia! Quanto cielo e quanti
voli s’io chiuda gli occhi alla freschezza
di questa sera piena di dolcezza,
accolgo in essi ancor tristi di pianti!

Pianti lontani come le tue, nonna,
favole buone, come le mie pure
notti, oh, quiete delle creature
che una fata protegge e una madonna!

Serenità, non tu mi riconduci,
nave di sogno, a una perduta riva?
non è forse una luce primitiva
questa che vince tutte le altre luci?

E colgo ancora le margheritine
per i capelli de le mie sorelle
e m’inebrio del sole e delle stelle
e piango se mi pungono le spine.

Tutto quel che fu mio, teneramente,
mette le foglie, mette i fiori, odora;
oh, mai tramonto si sbiancò in aurora
più di questa soave e più ridente!

Serenità, ben tu mi ricomponi
gioie profonde per il mio ritorno,
e suoni tutte le campane a stormo,
le campane già vedove di suoni,

entro il mio cuore, e vuoi tu che al fiorito
maggio spalanchi l’umili finestre
e odori il davanzale di ginestre
e canti ancora quello che infinito

canto mi parve e non fu che una nota!
Vuoi che l’orto mi dia ghirlande e frutti…
ma non sai farmi libero di lutti,
ma non sai popolarmi questa vuota

casa! E allora?… perché farmi tornare?
Serenità: quiete al mio tormento
vana, sono perduto, ora, mi sento
morire e gli occhi s’empiono di bare

e questo cielo non conobbe voli
mai, questa casa non s’aprì alla gioia,
serenità, serenità, ch’io muoia
dunque se il cuore tu non mi consoli,

se non valse al dolor tua compagnia,
se il passato mi stringe sì che in ogni
luogo ritrovo i miei perduti sogni
pieni di una mortale nostalgia.

Si tratta di una lirica in 13 quartine di endecasillabi, a schema di rime ABBA fisso e regolare, che ben si mimetizza nei sonetti che la circondano, in quel terminale rientro metrico che costituisce un fattore rassicurante, come ho spiegato nel succitato post.
In queste quartine si possono trovare facilmente due momenti fondamentali della narrazione: le prime otto quartine costituiscono una iniziale pienezza di dettagli naturali e suggestioni; le ultime quattro quartine rappresentano invece il rovesciamento di tutto ciò che viene precedentemente decantato; la nona quartina costituisce punto di svolta e fusione tra le due parti.

La prima parte si avvia con una invocazione al sole, estesa poi al cielo e alle stelle, elementi naturali spesso da Corazzini associati a momenti positivi e di salute, qui connotati in quanto non rassegnati allo sfacelo imminente, quindi positivi in quanto non negativi, non parte di una atmosfera altrimenti mortifera.
Un inizio quindi propriamente negativo che passa al positivo, attraverso anche il collegamento forte tra prima e seconda strofa (“araldi // giovinetti”) ed avvia una discesa in un ambiente prettamente naturalistico e felice, in cui domina il ricordo di sensazioni ed emozioni infantili ed immagini a loro volta fanciullesche (le sorelle e la nonna con le sue favole); Interessante notare come questa forte esperienza naturale sia in realtà artificiale, prodotto non già del contemplare attivamente quanto del chiudere gli occhi (strofa 3), quindi paesaggio ed esperienza fittizi e dell’immaginazione, o forse piu propriamente del sogno.
Ed in effetti è la serenità uno stato di quiete e di assopimento, si dimostra agli occhi del poeta come il momento in cui la cruda realtà si assenta e svanisce, dietro le palpebre chiuse, uno stato dove il pianto, termine caratteristicamente in fine ed inizio delle strofe 3 e 4 rispettivamente, si diluisce nella sua connotazione luttuosa e negativa attraverso i piu docili ricordi dei pianti bambineschi (anche strofa 6).
È qui che l’espediente mostra la sua debolezza: se la serenità crea sogni tanto vividi, quasi piu veri dei ricordi e delle realtà che rappresentano (strofa 7), è forse possibile ritrovarvi una reale speranza, che per corazzini si concretizza nel ritorno materialmente ad una condizione di salute e solidità fisica e mentale? La risposta è negativa, come preannuncia l’immagine delle campane che suonano, campane “vedove di suoni” (strofa 8) che riportano alla mente ogni scampanio di lutto che ha accompagnato eternamente colui che partiva per non tornare più.

È a questa immagine che segue la strofa 9, in cui questa atmosfera lentamente muta, diventa una condizione estranea dettata dall’inebriamento della serenità che riempie il poeta di sensazioni (“odori […] canti”) fuorvianti, insufficienti; Così si apre la seconda parte col verso “canto mi parve e non fu che una nota!”.
Questo gioco macabro del ricordo si smaschera definitivamente nelle strofe 10 e 11, legate tra loro ed alla 9 da coppie sostantivo+aggettivo spaccate che se nel primo caso trasla il termine “canto” in un mutamento concettuale che serve ad inquadrare il rovesciamento della situazione, nel secondo caso demolisce in un colpo solo l’andamento metrico e quello logico, isolando brutalmente il termine “casa”, che si trova così ad esprimere appieno la vuotezza in cui è gettato in questa ritrovata atmosfera funebre: “lutti”, rimante con “frutti”, a sua volta seguito dai punti di sospensione1, e “bare”, rimante con “tornare”, seguito da un punto interrogativo, sono i termini chiave di queste strofe, che inquadrano ad un tempo la certezza della morte e l’incertezza e la vaghezza di tutto ciò che è vivo.
Si porta a termine quindi, passando attraverso il terzo binomio fondamentale, “gioia” rimante con “muoia”, la grande trappola della serenità, pericoloso idolo in cui soffocano momentaneamente I dolori, solo per poi rivivere più forti fintanto che al breve sogno segua la veglia in cui “gli occhi s’empiono di bare”, in un gioco di “mortale nostalgia”.

Chiudo riportando il testo del sonetto di chiusura de “Le Aureole”; Non lo analizzerò, tuttavia rappresenta perfettamente il sunto di questa realtà espressa dall’autore, inoltre è emblematico il binomio emotivo che salta fuori accostando “alla serenità” col “sonetto della desolazione”:

Anima, come oggi nessuno arriva,
non tendere le pallide tue mani
a i cieli, troppo noi siamo lontani
e troppo melanconica è la riva.

Dici: domani… Oh, non sperar domani
più! La speranza è nel tuo cuore viva
così che l’abbandono la ravviva
con i suoi tristi addii quotidiani?!

Ben ora è che di tutto si disperi
e che il rosario dei futuri giorni
ci conduca al più puro dei misteri

in queste solitudini malate,
vedove di partenze e di ritorni,
simili a stazioni abbandonate.

  1. Durante tutto il componimento la punteggiatura è molto intensa e spesso forte in posizioni chiave: l’esempio maestro in tal senso è tutta la prima parte in cui si trova una serie di punti interrogativi ed esclamativi in fine di strofa.