Canti da Castelvecchio 2: "The Hammerless Gun"

17 Dec 2021 - MDA DS

Eccoci con un altro estratto dai “canti di castelvecchio”.
Ho cercato in ogni modo di trovare un compromesso adeguato, pensando di riprodurne e trattarne solo una parte per il tutto o evitare proprio la fatica, ma alla fine mi sono reso conto che era o tutto o niente e quindi ho deciso di trattare del componimento “the hammerless gun” nella sua interezza.
La scelta è stata presa in parte perchè il pezzo è estremamente importante e straordinario e parlarne mi è sembrato d’obbligo considerando che non tratterò l’altro pezzo corposo della raccolta, ovvero “il ciocco” (me ne scuso subito già che ci sono), in parte perché è assolutamente uno dei pezzi che ho preferito della raccolta, molto di più de “il ciocco” se devo basarmi su gusti personali (e mi scuso anche di questa ammissione).

Fatte queste dovutissime premesse, e preparatomi psicologicamente all’impresa di copiarlo in markdown, segue il testo integrale:

To the children Percy and Valente de Bosis

Dunque un hammerless! un… hammerless! (dono
del vostro babbo, o Percy, o Valentino;
del nostro Adolfo, il sapiente, il buono

simposiarco)… O montanine belle,
lo vedrete il maestro di latino!     5
sì, lo vedrete il pedagogo imbelle!

E lungamente mi sorriderete,
quando venite ai Vespri a questa Cura
di San Nicola. Un hammerless! Sapete?

che non ha cani: a triplice chiusura.     10
«Bello, mi dica: quello del Fusari…»
«Questo è un hammerless!» «Quello non ha cani».

«Questo è inglese!» Ah! inghilese! «Di Field, cari!»
Tacciono: io regno indifferente e cupo.
«Codeste selve batterò domani…»     15

tra me dico, a voce alta. «In bocca al lupo!»
Ecco l’alba (tra selve aride i fossi
vanno col fumo di vaporiere),

piena d’un tintinnìo di pettirossi,
cui risponde un tac tac di capinere…     20
Su la nebbia che fuma dal sonoro

Serchio, leva la Pania alto la fronte
nel sereno: un aguzzo blocco d’oro,
su cui piovano petali di rose

appassite. Io che l’amo, il vecchio monte,     25
gli parlo ogni alba, e molte dolci cose

gli dico:

LA PANIA

O monte, che regni tra il fumo
del nembo, e tra il lume degli astri,
tu nutri nei poggi il profumo     30
di timi, di mente e mentastri.

Tu pascoli le api, o gigante:
tu meni nei borri profondi
la piccola greggia ronzante.

Sei grande, sei forte: e dai cavi     35
tuoi massi tu gemi, tu grondi
del limpido flutto dei favi.

Sei buono tu, grande tra i grandi:
né spregi la nera capanna.
Al pio boscaiolo tu mandi     40
sovente la ricca tua manna.

Gli mandi un tuo sciame, che scende
giù giù per la valle remota,
qual tremulo nuvolo, e splende.

Lo segue un tumulto canoro;     45
ché timpani, cembali, crotali
chiamano il nuvolo d’oro. ‘-

Dico: egli ride roseo, ma scorso
il suo minuto, ridoventa azzurro
e grave. Io scendo lungo il Rio dell’Orso,     50
ne seguo un poco il fievole sussurro.

E me segue un tac tac di capinere,
e me segue un tin tin di pettirossi,
un zisteretetet di cincie, un rererere

di cardellini. Giungo dove il greto     55
s’allarga, pieno di cespugli rossi
di vetrici: il mio luogo alto e segreto.

Giungo: e ne suona qualche frullo, un misto
di gridii, pigolii, scampanellii,
che cessa a un tratto. L’hammerless m’ha visto     60
un fringuello, che fa: Zitti! sii sii

(sii sii è nella lingua dei fringuelli
quello che hush o still, o Percy, in quella
di mamma: zitti! tacciano i monelli)…

E sento tellterelltelltelltelltell (sai?     65
tellterelltelltelltell nella favella
dei passeri vuol dire come out! fly!

scappa, boy, c’è il babau!)… Dunque più nulla.
Silenzio. Odo un ruscello che gorgoglia,
e non altro. Il fringuello agile frulla     70
e, lontano, finc finc… Cade una foglia…

Proprio l’ultima (guardo) d’un querciolo
secco! È bastato il soffio di quell’ala,
è bastata la molla di quel volo:

eccola giù. Mi siedo sopra il greppo.     75
Era come una spoglia di cicala
(penso), rimasta a quel non più che un ceppo:

era gialla, era gracile; ma era
l’ultima; che più dì, pendula, tenne…
Come il povero vecchio ora dispera,     80
vicino al Rio che mormora perenne!

Sono mesto. Perché? Non lo so dire.
Intanto, tra le canne, tra la stipa,
sento un brusire ed uno squittinire,

che dico? un parlottare piano piano.     85
Ma sì, parlano a me, che dalla ripa
tacito ascolto, il mento sulla mano.

Sento:

IL PITTIERE

- tin tin! anche te? che c’invidi
due pippoli e due gremignoli?     90
tin tin, te che piangi sui nidi
che pìano pìano soli?

Si viene, tu vedi, da bianche
montagne, da boschi d’abeti,
con l’ale, puoi credere, stanche.     95

Si fa questi bruci, che sono
nei bussoli e negli scopeti…
Sapessi che fame!… Sii buono! -

E poi:

LA CAPINERA

- tac tac! anche te? non rammenti     100
le sere di quella tua mesta
città? le tue lagrime ardenti?
quel canto d’ignota foresta

tra l’onda di tante campane,
tanti urli di folla, e tra il sordo 105
fragore di ruote lontane?

Piangevi: e saliva il mio canto,
con l’eco d’antico ricordo,
col suono di nuovo rimpianto. -

E poi:      110

L’ALLODOLA

- uid uid! anche tu ci fai guerra?
tu che ci assomigli pur tanto,
col nido tra il grano, per terra,
ma sopra le nubi, col canto?

Te rode una cura segreta;     115
tu cerchi l’oblìo de’ tuoi mali.
Ma sei come tutti, o poeta?

Tu piangi il tuo povero nido
per terra… Ma vieni, ma sali,
ma lancia nel sole il tuo grido! -     120

Cara allodola! - E dopo? - Dopo? Impugno
l’hammerless e… ritorno via. Si rischia
d’infreddare: gennaio non è giugno.

Tra i ginepri c’è un merlo che mi fischia.
E un forasiepe: - Eh! tu torni… so dove.     125
Oh! il tuo bel nido, che nemmen ci piove!

Prima di buttarci in un’analisi più dettagliata facciamo un po’ di ordine strutturale: il componimento è diviso in modo piuttosto regolare in 7 parti: una introduzione, la Pania che consta di due parti ben distinte metricamente, il pittiere, la capinera e l’allodola seguita da due terzine di chiusura.
L’individuazione di queste componenti è abbastanza immediata ed ovvia in primis per la divisione fatta dallo stesso autore, con le parti titolate, secondariamente per via di una scansione metrica ben precisa e chiara che si spezza perfettamente per seguire le necessità narrative.
Detta in modo molto semplice i novenari fanno da verso poetico, che entra in gioco per delineare l’abbandono dell’autore agli elementi naturali che gli parlano e comunicano, gli endecasillabi fanno da verso prosastico (se può aver senso una simile definizione1) il cui uso serve a descrivere e narrare le vicende direttamente vissute dal poeta-narratore.

Alla luce di questa suddivisione metrica la radiografia del componimento può essere completata nel dettaglio: 1 introduzione: otto terzine con un distico finale, endecasillabi con un sentore altamente “prosastico”, schema di rime inizialmente regolare (ABA CBC) che si dissolve parzialmente nel cuore di questo tratto di componimento; 2 la pania I: entra in gioco la struttura fondamentale quartina+terzina+terzina, che da ora scandisce tutto il componimento perdendosi solo in conclusione,questa parte è composta da due di queste strutture, in novenari con schema rimico regolare ABAB CDC EDE; 3 la pania II: quattro strutture fondamentali di endecasillabi con schema rimico regolare come sopra; 4 il pittiere: una struttura fondamentale di novenari con schema rimico regolare; 5 la capinera: come il pittiere; 6 l’allodola: come pittiere e capinera; 7 chiusura: due terzine di endecasillabi che si collegano direttamente alla struttura fondamentale con cui lasciamo l’allodola ma in modo acefalo (manca la quartina) e con le rime nella seconda terzina scomposte in modo da terminare in rima baciata.

La parte introduttiva si fa forza della struttura metrica, rigida ma come detto abbastanza sciolta, per inserire la vicenda in modo estremamente vivo: la moltitudine di discorsi diretti e il tono vagamente introspettivo di questi (come se Pascoli stesse parlando a se stesso prima che ad altri) danno la portata personale della riflessione, soprattutto alla luce della dedica ai figli del sig. De Bosis, un’entusiasmata dedica che nel trasporto per il fucile donato intavola l’espediente narrativo.
La vicenda, che si comprime vagamente, nell’ambito di una sola strofa si passa dall’oggi al domani (vv. 16-17), apre lo sguardo sul monte Pania che diventa protagonista della seconda parte del componimento.
Volendo però prima zoomare su alcuni punti chiave, celato nell’entusiasmo troviamo subito l’ambivalente incertezza dell’autore-protagonista ad esempio nei vv. 5-6 in cui l’autoritratto non può non lasciare una sensazione di ironia e gioco, ancor più nel v. 16 in cui quel “in bocca al lupo!” Smaschera tutta l’insicurezza nascosta di questa battuta di caccia; ad ultimo entrano in scena, oltre alla pania, gli altri protagonisti del componimento: pettirossi e capinere, cui è data parola nelle parti 4 e 5, manca l’allodola che d’altronde, come vedremo, ha un ruolo speciale.

Come preannunciato inizia la seconda parte come un elogio al monte, che introduce la seconda tipologia metrica, cioè il novenario, nonché la forma di sonetto acefalo che ricorre per tutto il resto del componimento.
La descrizione è molto nelle corde di questa prima parte di raccolta e fa eco semanticamente ai componimenti che precedono: in particolare le api e il boscaiolo sono elementi ricorrenti che aiutano a inquadrare maggiormente lo scenario in un’atmosfera di familiarità e pace bucolica, che si spacca, tuttavia, rapidamente nel passaggio alla terza parte del componimento introdotto da un eloquente “ ridoventa azzurro / e grave” che dà intrinsecamente il senso di mutamento emotivo, una differenza nel rapporto tra l’uomo, il Pascoli autore-protagonista, e la natura, il caro monte, costituita dal fucile, che va a delinearsi come elemento di disturbo.
Questa caratteristica dell’arma si mostra nella reazione a catena che innesca: quando il fringuello la nota si trova costretto a dare l’allarme che fa fuggire tutti i piccoli il cui battito d’ali, seppur debole, è sufficiente a far cadere l’ultima foglia dell’albero; Un presagio mortifero che in un qualche modo diventa inconsciamente una colpa, “sono mesto. Perchè? Non lo so dire.” fa il poeta attorniato dal silenzioso lamento di quel vecchio albero.
Presentimenti e senso di colpa che sono confermati nel passaggio alle parti 4 e 5, dove quel vago cantare di pettirossi e capinere che fino a quel momento aveva di sottofondo seguito la scampagnata si concretizza in dialogo.
Va sottolineato l’uso sapiente, solo accennato nella parte introduttiva, della lingua inglese e degli espedienti onomatopeici, che creano una varietà linguistica coinvolgente; non ultimo gli incisi tra parentesi che enfatizzano, accanto ad enjambement, discorso diretto e punteggiatura ricca, la narrazione.

Le voci già nominate degli uccelli (i “tin tin” e “tac tac”) prendono forma in una predica crescente:

Concetto che si concretizza infine nella parte 6, dove si inserisce una voce nuova: il “uid uid” dell’allodola che esplicita questa comunanza: “tu che ci assomigli pur tanto”; somiglianza che si esplicita in due fattori “col nido tra il grano, per terra, / ma sopra le nubi, col canto?” ovvero nella interiore e profonda tristezza che solo la devastazione del nido può generare, ma al contempo col dono della poesia (quella luce di cui parlammo nel precedente post).
E tanto più profondo si mostra questo autoparagone se si guarda all’epistolario tra il Pascoli e il sig. De Bosis che definisce le allodole i “poeti del cielo”, invitando il destinatario a non importunarle.
Può dunque, il poeta, alla luce di questa sua condizione così unica essere come tutti? Chiaramente la risposta è no e si esplicita nelle due terzine conclusive.

Fin qui i tre uccelli parlano, come parrebbe ovvio dalle considerazioni fatte, in novenari; tornano ora gli endecasillabi per chiudere il componimento nella ricchezza di discorso diretto e introspezione.
L’arma, che in queste strofe era passata in secondo piano, dimenticata, viene impugnata un’ultima volta per rientrare: “si rischia / d’infreddare: gennaio non è giugno.” e seguito dai fischi degli uccelli e dalla riacquisita condizione di privilegiata comunione con la natura, quella che nell’incupirsi del monte svaniva di fronte a quell’arma disturbante, il protagonista può rientrare nel suo nido, ma non in quello distrutto, “per terra”, piuttosto nel suo nuovo nido così faticosamente ricostruito ma così ben riuscito “che nemmen ci piove!”; Un abbastanza insolito moto di speranza di Pascoli di fronte alla sua situazione.

Ora, prescindendo dalla narrativa della poesia, che ho provato a riassumere e delineare nei suoi caratteri essenziali, a fare così celebre e ben riuscito il componimento è certamente la notevole caratura metrica, la ben riuscita alternanza di novenari ed endecasillabi, ricchissimi di dettagli molto moderni come le escursioni di lingua inglese2 e la punteggiatura abbondante, così come il discorso diretto, che in particolare risaltano davanti a voci naturali molto più tradizionalmente Pascoliane.
Vale però anche la pena notare qualcuna delle squisitezze poetiche che si trovano qui e là, ad esempio la rima fonetica sai-fly ai vv. 65/67, quel termine “era / l’ultima”3 che spaccato a cavallo dei vv. 77 e 78 moltiplica la sua potenza espressiva, ancora termini come “Silenzio.” Al v. 68 o “Sono mesto.” Al v. 81, che nel loro essere come isolati a inizio verso e strofa incorniciano il momento clou della vicenda in cui il rischio di rottura è tangibile.
Perle che arricchiscono la metrica sapiente e la narrazione eloquente rendendo questo pezzo uno dei capolavori della raccolta, che spero sia piaciuto tanto quanto è piaciuto a me.

  1. è in realtà molto interessante affrontare la poesia italiana tardo-moderna e contemporanea anche in virtù del suo rapporto con la prosa, in merito e non solo può valer la pena leggere alcuni tratti de “la metrica italiana contemporanea” di Paolo Giovannetti e Gianfranca Lavezzi. 

  2. esperimenti che all’autore piacciono, come ci mostra il successivo “Italy”. 

  3. mi rimanda subito alla mente analoghe uscite Corazziniane di cui ebbi occasione di parlare in precedenza.